Elencare gli strumenti utilizzati in una professione o valutare quali siano gli obiettivi, non è sufficiente per fornire una sua definizione. Infatti, se prendiamo in esame gli atti professionali posti in essere dallo psicologo, osserviamo come il colloquio, l’osservazione, l’intervista, la stessa somministrazione di test, appaiono tutti essere strumenti polivalenti, in quanto utilizzati lecitamente in altri e diversi ambiti professionali.

La specificità dello strumento che lo qualifica come tipico di una certa professione, inoltre, si rivela attraverso il riferimento teorico cui si ispira e che lo sostiene; o, in altri termini, alla specificità concorre l’avere dello strumento – nella scelta e nell’uso – il fondamento su quelle conoscenze teoriche e su quelle abilità tecniche che derivano dalla formazione in quel campo professionale.

Strumento e fondamento teorico, quali elementi caratterizzanti un “atto professionale”, non sono tuttavia ancora sufficienti se non si considera anche lo scopo. Difatti, ben potrebbe darsi che un colloquio, pur condotto con modalità e tecniche ineccepibili sul piano teorico in ambito psicologico, sia finalizzato a un obiettivo che nulla ha di psicologico, come potrebbe essere la conversazione di un pubblico ministero con un indagato per ottenere informazioni concernenti un fatto di rilevanza penale.

Ne deriva che la tipizzazione di un comportamento appartenente ad una professione richieda la concorrenza di tre elementi costitutivi: lo strumento, il riferimento teorico e la finalità (o scopo).

È opportuno partire da quanto statuisce la legge istitutiva dall’Ordine degli Psicologi. Testualmente l’art. 2 della L. 56/1989 dice: “La professione di psicologo comprende l’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico, rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità. Comprende altresì le attività di sperimentazione, ricerca e didattica in tale ambito”. Come si nota, la definizione in oggetto prende in considerazione pur genericamente gli strumenti (conoscitivi e di intervento), le finalità (prevenzione, diagnosi, abilitazione e riabilitazione e sostegno) e l’ambito (psicologico), il che rimanda all’equipaggiamento teorico e tecnico di tipo psicologico.

Inoltre, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi ha approvato e sottoposto a referendum fra gli iscritti, ai sensi dell’art.28 punto 6 comma C della L.56/1989 (istituzione Ordini Psicologi), la modifica del art. 21 del Codice Deontologico, entrato in vigore il vigore il 5 luglio 2013, che recita al comma terzo: “…Sono specifici della professione di psicologo tutti gli strumenti e le tecniche conoscitive e di intervento relative a processi psichici (relazionali, emotivi, cognitivi, comportamentali) basati sull’applicazione di principi, conoscenze, modelli o costrutti psicologici…”.

Ne consegue che chiunque, non essendo iscritto all’Albo degli psicologi, metta in atto condotte che comportino comunque l’uso di strumenti finalizzati alla prevenzione, alla diagnosi o alle attività di abilitazione, di riabilitazione o di sostegno in ambito psicologico commette il reato di esercizio abusivo della professione di psicologo.

Ora, tutti gli sforzi che le figure “limitrofe” alla psicologia (come coach o counselor) compiono per tentare di differenziare la loro attività da quella dello psicologo partono spesso dall’errata considerazione che la figura dello psicologo coincida con quella dello psicoterapeuta: il che – ovviamente – non è. E neppure potrebbe sostenersi che il counselor o il coach, se non si occupa di psicopatologia, si differenzia dallo psicologo, posto che quest’ultimo non è affatto costretto, nel suo operare professionale, a confrontarsi con problemi psicopatologici, ben potendo occuparsi di situazioni che nulla hanno di patologico, così quando l’obiettivo è quello, ad esempio, di mettere in atto percorsi di prevenzione e promozione della salute ed il benessere rivolti all’individuo, alla coppia o alla comunità.

A questo punto è lecito chiedersi se, ad esempio, per “scoprire le proprie potenzialità”, “affrontare passaggi evolutivi” o per ben gestire “le emozioni” o “lo stress” si possa prescindere da un intervento sui contenuti e sui processi mentali del cliente, attraverso il colloquio, per tendere ad una loro modifica migliorativa. E, ancora, ci si deve domandare se, per ottenere tali risultati, si faccia qualcosa d’altro rispetto ad un percorso psicologico.

Ma già l’analisi delle esigenze del cliente (ovvero l’analisi della domanda) se vuol essere qualcosa di più serio di una chiacchierata da bar dello sport, implica una esplorazione dei vissuti, con un evidente ingresso nel “mentale” dell’interlocutore, sia per comprenderlo, sia per poi mettere il paziente nella possibilità di correggere (o anche solo tentare di correggere) i fattori disturbanti.

Quindi, deve essere considerato come pacifico che una professione, per essere considerata tale, deve essere definita dalla originalità nella convergenza degli strumenti, degli obiettivi e dei riferimenti teorici.

A proposito del counseling e del coaching è legittimo porsi la domanda – al di là di ogni perplessità circa gli strumenti e i fini/obiettivi – su quali siano le teorie (non di derivazione psicologica) di riferimento. Una tecnica che non si fondi su una teoria scientificamente riconosciuta scade al livello dell’intervento di un profano qualsiasi, per cui già così risulterebbe superfluo ogni discorso sugli scopi. Rimane, per quanto ne sa chi scrive, ignoto quali siano i percorsi di formazione legalmente e soprattutto scientificamente riconosciuti, su quali diversi apparati teorici si basino e quali criteri di selezione si utilizzino: è paradigmatico, ad esempio, che nell’attuale quadro normativo chiunque possa definirsi ed esercitare, senza nessun percorso formativo obbligatorio, la professione di counselor o coach. Lo psicologo, invece, per esser tale, affronta un percorso formativo lungo e qualitativamente adeguato, che non si esaurisce con il conseguimento della laurea. Per poter esercitare la sua professione gli occorre, infatti, anche effettuare un tirocinio professionalizzante della durata di un anno e sostenere un esame di Stato.

È mia opinione – certamente discutibile – che il counseling o il coaching possano essere considerate attività di per sé lecite, ma non autonome dal momento che rientrano nei campi di competenza dello psicologo, del medico, dell’assistente sociale, dell’infermiere e di altre professioni di aiuto, a seconda dell’ambito applicativo.

Per quanto concerne il problema del rapporto con lo psicologo, sembrerebbe non controvertibile che ogni qualvolta venga affrontato – con i soliti strumenti del colloquio o dell’osservazione, ovvero dell’intervista o della somministrazione di test – un problema che abbia a che fare con il “mentale”, e che quindi abbia natura psicologica (non importa se attenga alla psicopatologia o meno), l’agente non possa che essere uno psicologo.

E in proposito mi sembra del tutto insostenibile che obiettivi come “migliorare le relazioni”, “superare i conflitti”, o ancora di “gestire emozioni e sentimenti” non attenga indiscutibilmente all’ambito psicologico, e quindi che non richieda la conoscenza dei processi mentali dell’interlocutore (ipocritamente chiamato “cliente” e non “paziente”), e non rientri, dunque, “nell’uso degli strumenti conoscitivi e di intervento per la prevenzione, la diagnosi, le attività di abilitazione-riabilitazione e di sostegno in ambito psicologico rivolte alla persona, al gruppo, agli organismi sociali e alle comunità”.

Un poco paradossalmente mi viene da concludere che il counseling o il coaching in ambito psicologico è del tutto ammissibile, purché sia posto in atto da uno psicologo.

Dott. Eugenio Calvi